Psicologia dell’emergenza: come operare su scenari a forte impatto emotivo (2' e ultima parte)

Data: 11/02/2022

Autore: Daniele Montorsi 

Aumento della pressione sanguigna, tachicardia, aumento della sudorazione, contrazioni muscolari, disorientamento, assenza di reattività nei confronti di domande e istruzioni verbali, attacchi di panico, paura, pensieri intrusivi cioè immagini di un evento che ci ha colpito e che continuamente riaffiorano alla nostra mente: sono queste le tante diverse modalità con le quali ciascun essere umano reagisce in maniera personalissima, quando è coinvolto in situazioni che gli procurano stress psico-fisico o comunque, emozioni intense.

E non parliamo soltanto di eventi fortemente traumatici (come per esempio terremoti) ma anche di situazioni più collegate alla nostra quotidianità come ad esempio un esame universitario, una competizione agonistica, un compito professionalmente importante, una rapina

E’ con questa premessa che mercoledì 9 febbraio, nella nostra sede e nel pieno rispetto delle disposizioni in materia di contrasto al Covid19, abbiamo continuato il nostro percorso di approfondimento della Psicologia dell’Emergenza.

Riconoscere queste reazioni, è di estrema importanza per il soccorritore (sia esso professionale o volontario) perché in ambiente emergenziale, l’evento traumatico produce una frattura nella vita del traumatizzato, tra un “prima” l’evento e un “dopo” l’evento”, frattura che dobbiamo aiutare a ricomporre per favorire un ritorno ad una rassicurante normalità.

Dunque il soccorritore deve innanzi tutto fare un’autoanalisi per capire se è in grado di affrontare emotivamente quell’emergenza e poi essere molto bravo a capire il contesto e lo stato in cui si trova il traumatizzato, per intervenire efficacemente.

Aiutare la persona a regolarizzare il respiro come condizione per scaricare le proprie tensioni, ristabilire un senso di sicurezza fisica con frasi volte a relativizzare il pericolo appena corso, proporre al traumatizzato piccole cose molto semplici (toccare una penna, sfogliare un libro) per allontanarlo dal momento dello shock e farlo rientrare nel presente, trasmettere calma sia con il tono della voce che con l’atteggiamento del nostro corpo, rimanere calmi di fronte a manifestazioni di aggressività ben sapendo che non siamo “noi” la causa dello sfogo, ma quel senso di aver subito un’ingiustizia e una violenza gratuita che il traumatizzato prova dopo l’evento. Sono importanti tutti quegli interventi verbali volti a ricreare un clima di fiducia, a trasmettere il messaggio che noi ci siamo e che stiamo condividendo la sorte del soggetto. Non esistono “frasi fatte” ed in fondo non è nemmeno così importante il contenuto delle nostre parole ma il “modo” in cui vengono pronunciate, quella “comunicazione non verbale” che è legata alla nostra sensibilità e capacità di trasmettere vicinanza, anche con il silenzio.

A maggior ragione se il traumatizzato è un bambino: non sottovalutarne le paure perché per lui sono importanti ma farle esternare lasciandolo parlare o facendolo disegnare, non proteggerlo eccessivamente ma favorirne l’autonomia, mostrare di aver fiducia in lui e dirglielo quando ha successo, evitare noi adulti di trasmettergli le nostre paure, ma come sempre dare il buon esempio reagendo ai pericoli in maniera razionale.

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