MODENA, QUANDO C’ERANO I CANALI

Lo sapevate che, sotto i nostri piedi, la città di Modena fa acqua da tutte le parti? Letteralmente. Come molti di noi in Protezione Civile sanno bene, a Modena e verso la bassa non ci sono solo i due grandi fiumi (più il Naviglio e poco altro), ma scorre una rete fittissima di canali.

Con questa premessa, abbiamo partecipato a un interessantissimo incontro tenuto dall'architetto Antonella Manicardi, dirigente del Servizio di Pianificazione Urbanistica e Cartografica presso la Provincia di Modena, nonché autrice di diversi libri sulla storia della nostra provincia in relazione all'acqua.

La storia di Modena è indissolubilmente legata a quella dei suoi corsi d'acqua, non soltanto come rischio (argomento su cui purtroppo o per fortuna molti di noi hanno esperienza sul campo), ma scopriamo grazie all'architetto Manicardi che gli stessi corsi d'acqua sono sempre stati una risorsa. Per quattro motivi principali: energia, irrigazione, trasporti, igiene urbana.
Non è il compito di questo articolo riportare tutti i fatti imparati durante l'incontro, ma piuttosto di stimolare una curiosità per approfondire il discorso. Riportiamo comunque volentieri alcuni esempi relativi ai quattro utilizzi dell'acqua come risorsa.

Acqua come energia: basti dire che nel 1849 i mulini in provincia erano 386. Ed esistevano (già da secoli) delle norme che ne regolavano l'attività, per esempio per quelli adibiti alla macina del grano che essendo di pubblica utilità erano tassati, tanto che una grida del 1706 impone, in caso di riscontro di mulini abusivi, “…di devastarli e di portare i detti ordigni all’Ufficio della Macina”.

L'acqua per irrigazione, invece, è in effetti in contrasto a quella come energia. E infatti l'utilizzo per l'uno o l'altro scopo era precisamente alternato e regolamentato. E anche qui erano puniti gli abusi relativi all'irrigazione perché quell'acqua veniva a mancare per l'energia. Una grida del 1653 relativa all'acqua del Buco di Batterame a Casinalbo recita: “Chi è scoperto a rubare l’acqua [per irrigazione, ndr] verrà punito, l’accusatore «tenuto segreto», la multa divisa in tre (camera ducale, al Governatore di Formigine, danneggiato)”.

Ai fini dell'igiene urbana, i numerosissimi corsi d'acqua e canali che passavano per la città venivano ovviamente usati come discariche a cielo aperto, ma se ci ragioniamo a differenza di oggi che abbiamo tutti gli strumenti per liberarci di immondizie e scarti di ogni genere in maniera igienica (e legale), all'epoca quello era il modo più semplice e in effetti più pulito per farlo. Curioso poi notare che oltre ai canali provenienti da Secchia e Panaro, che portavano acque torbide, c'erano anche canali di origine faldifera che trasportavano acqua pulita (Corso Canalchiaro accende una lampadina...?). Quest'acqua era usata per lavare / lavarsi, e per tante attività (ad esempio la lavorazione della carta). E in questi canali - appunto chiari - era vietato ad esempio portare i buoi ad abbeverarsi perché li avrebbero sporcati. Leggiamo nello specifico a proposito di Canal Chiaro (sempre quello): “E' proibito «gettare rottami, predumi, ruschi, cinerazzi, letti di bigatti e altre immondizie», specialmente [ai] «Tintorri Pellacani e Capellari».

Infine, un altro importantissimo uso dell'acqua era ai fini dei trasporti. Carlo Goldoni scrisse del suo viaggio da Venezia a Modena in barca del 1780, viaggio che comporta l'utilizzo di chiuse (per superare i dislivelli fra vari canali) ma che soprattutto, come lamenta lui, implica la scomodità di cambiare tre barche perché ogni Stato (Repubblica di Venezia, Stato Pontificio e Ducato di Modena) aveva le proprie (e naturalmente le proprie tariffe di trasporto).
Le barche, di diversi tipi in base allo scopo, spesso avevano un albero per la vela, che era ribaltabile per passare sotto i ponti, ma il vento non era sufficiente per spostarsi controcorrente, e dovendo risalire il flusso si ricorreva agli alatori (pensiamo al termine alzaia) che dalle rive trainavano le imbarcazioni con lunghe cime. Spesso il compito era dei più giovani, ma altre volte era demandato ai buoi: questo succedeva per esempio nell'attiraglio a lato del Naviglio (tutt'ora nella zona abbiamo via Attiraglio)
C'erano poi i passatori, che trasportavano persone, animali e merci da un lato all'altro dei fiumi, e a questo proposito chiudiamo con una curiosità: il nostro famoso ponte dell'Uccellino deve il suo nome al passatore Guido Cavalcanti, che a cavallo fra fine '800 e inizio '900 aveva la sua barchetta per congiungere le due rive. Cavalcanti era detto Uccellino per la sua corporatura minuta, e il nome è rimasto attaccato al luogo anche quando pochi anni dopo vi fu costruito il primo ponte.

 

Da qui è possibile scaricare le slides presentate dall'arch. Manicardi durante la serata.

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